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Verso il G8 – Strategie per uscire dalla crisi

Discorso di Lorenzo Bini Smaghi, Membro del Comitato esecutivo della BCEUniversità LUISS Guido Carli 27 maggio 2009

Desidero innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questo convegno per l’invito a riflettere insieme sui temi legati al prossimo vertice del G8. Non c’è dubbio che la crisi economica e finanziaria, la più grave dal dopoguerra, sarà al centro delle prossime riunioni internazionali.

Il convegno di oggi si intitola “Strategie per uscire dalla crisi”. Giustamente si parla di strategie, perché i livelli sui quali bisogna intervenire sono molteplici. Riguardano la regolamentazione finanziaria, il governo delle istituzioni e delle imprese, i comportamenti etici degli operatori economici e del legislatore, le politiche economiche. Guardando alla composizione del panel di questo convegno mi sembra che i miei vantaggi comparati siano soprattutto su quest’ultimo aspetto, ossia sulle politiche economiche.

Non c’è dubbio che le politiche economiche degli anni passati abbiano avuto un ruolo nel determinare le condizioni che ci hanno portato a questa crisi. Non è stato l’unico, forse nemmeno il principale, ma è stato importante, perché ha teso ad accentuare, invece di contrastare, i comportamenti pro-ciclici degli operatori. Ad esempio, nei paesi dove il settore privato era già ampiamente indebitato le politiche economiche ne hanno talvolta ulteriormente favorito l’indebitamento, in particolare attraverso tassi d’interesse bassi e incentivi fiscali.

Se si vuole evitare che si ricreino le condizioni che hanno portato a questa crisi, bisogna esaminare con attenzione le motivazioni sottostanti alle politiche economiche messe in atto in questi anni. Questo esercizio può essere fatto su due livelli. Il primo consiste nel valutare le politiche economiche in base ai parametri di riferimento specifici di tali politiche. Una politica può risultare inadeguata, ad esempio, perché basata su previsioni sbagliate dell’economia oppure perché messa in atto con strumenti poco efficaci. Per ora la discussione si è sviluppata soprattutto a questo livello, e i rimedi proposti hanno mirato sopratutto a correggere questi aspetti. È una discussione importante, non c’è dubbio, ma rischia di non essere sufficiente perché non affronta le cause fondamentali che hanno indotto le autorità di politica economica a prendere certe misure. Per questo motivo, è necessario un secondo livello di analisi, più profondo.

Andiamo con ordine. Partiamo dal primo livello di analisi. Si tratta di esaminare il modo in cui la conduzione delle politiche economiche abbia contribuito all’emergere di squilibri, che sono stati all’origine della crisi. Si possono considerare varie politiche, strutturali, regolamentari, di bilancio e monetarie. Per motivi di spazio vorrei concentrarmi brevemente sulle politiche monetarie, per dare un esempio del tipo di analisi che va fatta, e viene fatta, anche in altri settori.

Vi è ormai un ampio consenso sul fatto che la politica di tassi d’interesse molto bassi, soprattutto in termini reali, che è stata messa in atto in particolare negli Stati Uniti nel periodo 2002-2004 abbia alimentato gli incentivi per le istituzioni finanziarie, le famiglie e le imprese, ad indebitarsi e a prendere posizioni speculative ad alto rischio. In un saggio recente [1], John Taylor ha mostrato che se la Riserva federale avesse attuato una politica monetaria meno espansiva, e avesse invece seguito una regola semplice per determinare i tassi d’interesse, in linea con i comportamenti passati, si sarebbe accumulata meno liquidità a livello globale. Ovviamente questa è una valutazione fatta ex post. Ed è facile scaricare le responsabilità all’autorità monetaria statunitense. Andando a rileggere le analisi svolte in quel periodo, si può verificare che tale politica raccoglieva il consenso del mondo accademico, degli analisti di mercato, delle parti politiche. Dopo lo scoppio della bolla tecnologica e l’11 settembre, c’era un grande consenso sul fatto che il rischio maggiore era di una deflazione, per far fronte al quale era necessaria una forte e sostenuta espansione monetaria. [2]

Quel modo di ragionare era talmente diffuso e propagato, attraverso i mezzi di comunicazione (non solo anglo-sassoni), che chi faceva scelte diverse veniva subissato da critiche. La Banca Centrale Europea, che invece si era rifiutata di ridurre i tassi d’interesse sullo stesso livello della Riserva federale, mantenendolo al 2 per cento (contro l’1 per cento della Fed) è stata a lungo oggetto di critiche. [3] Si mossero non solo accademici, commentatori e analisti di mercato, ma anche Capi di Stato e di Governo per chiedere alla Bce di allentare la politica monetaria. Come se l’unico criterio per decidere i tassi d’interesse non fossero le condizioni di fondo dell’economia, in una prospettiva di medio periodo, ma la necessità di agire a tutti i costi, in una direzione sola, a imitazione di quello che avevano fatto oltre Atlantico. Alcuni chiedevano addirittura che la BCE intervenisse sui mercati dei cambi per fissare la parità tra l’euro e il dollaro. Se ciò fosse avvenuto, la bolla speculativa sarebbe stata più ampia e gli effetti del suo scoppio ancor più devastanti, sopratutto per l’Europa.

Quando la Bce decise, nel Dicembre 2005, di aumentare i tassi d’interesse, fu di nuovo inondata da critiche. In molti sostenevano che tale decisione avrebbe tagliato le gambe alla ripresa economica. [4] Con il senno di poi, evidentemente la politica svolta dalla Bce, più orientata al medio periodo, si è rivelata adeguata.

Gli effetti della politica monetaria sugli andamenti dei mercati finanziari, in particolare nel favorire la successiva bolla finanziaria, hanno spinto a un ripensamento sull’impostazione della politica monetaria. Il dibattito è in corso e verte su vari aspetti. Li riassumo brevemente.

Il primo riguarda lo strumentario della politica monetaria. L’esperienza recente ha mostrato che il metodo seguito dalla gran parte delle banche centrali, basato sul cosiddetto “ inflation targetting” (che consiste nel prevedere l’inflazione sulla base di un modello economico e di modificare il tasso d’interesse in modo da assicurare che l’inflazione prevista sia in linea con l’obiettivo) non tiene sufficientemente conto degli sviluppi finanziari, in particolare dei prezzi delle attività, che possono incidere sulla stabilità dei mercati e nel tempo sull’inflazione. Alcuni sostengono che la politica monetaria dovrebbe agire in modo pro-attivo per evitare tendenze eccessive dei mercati finanziari, il cosiddetto “ leaning against the wind”. [5] Bisognerebbe, in altre parole, essere pronti a contrastare l’emergere di bolle speculative, anche attraverso aumenti dei tassi d’interesse, prima che si verifichino pressioni inflazionistiche. Sembra facile da dirsi, molto più difficile da mettere in atto. Se già è difficile prevedere l’inflazione, è ancor più arduo interpretare i prezzi delle attività finanziarie e trarne indicazioni per quel che riguarda i rischi di instabilità. Ed è ancor più complesso modulare l’andamento dei tassi d’interesse in base a tali indicazioni. Per questo motivo, la proposta di “ leaning against the wind” rimane per ora un concetto astratto. Sarebbe importante sviluppare modelli economici che diano un’idea più precisa della dimensione quantitativa di questi fenomeni, in particolare della correlazione tra le variabili di politica monetaria e i prezzi delle attività finanziarie. [6]

La Bce ha da tempo cercato di usare le informazioni relative ai mercati monetari e creditizi nel prevedere le pressioni inflazionistiche. La strategia della Bce si basa su due pilastri, uno economico e l’altro monetario, che usano vari indicatori di breve e medio periodo, inclusi gli aggregati e i prezzi delle attività finanziarie. Questi indicatori non vengono usati in modo meccanicistico ma per capire in particolare se l’impostazione della politica monetaria è coerente con il raggiungimento dell’obiettivo. Proprio sulla base di questi indicatori, che mostravano una dinamica sostenuta, la Bce decise di aumentare i tassi d’interesse a fine 2005; quella decisione tanto controversa, ma poi rivelatasi giusta ex post, a cui ho accennato prima. [7]

Il secondo aspetto su cui si sta sviluppando il dibattito riguarda l’obiettivo della politica monetaria. Nella maggior parte dei paesi la politica monetaria ha come obiettivo prioritario la stabilità dei prezzi. Ci sono anche degli obiettivi secondari, da perseguire coerentemente con la stabilità dei prezzi. La questione che si è posta per effetto della crisi è se la banca centrale debba avere come obiettivo esplicito anche la stabilità finanziaria, sullo stesso piano della stabilità dei prezzi. In effetti, se la stabilità dei prezzi è una condizione necessaria, per raggiungere la stabilità finanziaria, non è sufficiente. D’altro canto, senza stabilità finanziaria rischia di non esservi una stabilità dei prezzi duratura. Sembra dunque ragionevole attribuire alle banche centrali anche l’obiettivo della stabilità finanziaria.

Se si intende seguire questa via, è necessario che le banche centrali abbiano gli strumenti per raggiungere gli obiettivi che vengono loro assegnati. Il tasso d’interesse viene tipicamente usato per adeguare le condizioni monetarie all’obiettivo della stabilità dei prezzi. Per perseguire anche la stabilità finanziaria è necessario disporre di un altro strumento. In particolare, se l’obiettivo è di contrastare comportamenti pro-ciclici e di eccessiva accumulazione della leva finanziaria da parte degli operatori, che sono all’origine delle bolle speculative, la banca centrale deve poter usare strumenti che incidono sulla struttura dei bilanci bancari. Deve ad esempio poter incidere sulla capacità di indebitamento, sulla leva finanziaria, sul modo in cui viene gestita la liquidità o in cui vengono contabilizzate le riserve nelle fasi favorevoli del ciclo, per poter poi far fronte alle fasi negative. Questi sono gli strumenti di vigilanza cosiddetta macro-prudenziale, che vengono usati in modo preventivo.

In questo senso andava il rapporto de Larosière predisposto in Europa per trarre alcune lezioni dalla crisi. [8] Il rapporto limita però la capacità di azione del sistema di banche centrali alla semplice emissione di raccomandazioni, mentre sono preclusi interventi diretti sulle variabili che sono all’origine degli squilibri finanziari. La responsabilità di implementare, o di non implementare, le raccomandazioni macro-prudenziali rimane una scelta nazionale, della relativa autorità di vigilanza. Non c’è nessuna garanzia che talimisure vengano prese, in modo uniforme e coerente con l’esigenza di stabilità all’interno del mercato unico. La concorrenza tra i centri finanziari nazionali, rischia in realtà di disincentivare le autorità nazionali dall’adottare misure proposte dall’autorità europea.

La politica monetaria non ha incontrato problemi solo nei paesi avanzati. Alan Greenspan ha sostenuto in particolare che l’aumento della liquidità globale degli anni passati non è dipesa dai tassi d’interesse decisi dalla banca centrale americana, ma dai flussi di finanziamento provenienti dai paesi asiatici in particolare dalla Cina. [9] In altre parole, in un mondo caratterizzato da elevata integrazione finanziaria, le condizioni monetarie all’interno dei singoli paesi, inclusi quelli di grandi dimensioni, non vengono più determinate solo dalle rispettive politiche ma anche da quelle messe in atto nei paesi emergenti, soprattutto se questi – come è stato il caso della Cina - fissano il loro tasso di cambio su livelli che li portano ad accumulare ampie riserve di cambio. Il legame con il dollaro ha significato per la Cina adottare la stessa politica monetaria americana, una politica indubbiamente troppo espansiva per le condizioni interne di un’economia emergente. Ma ha significato anche far rifluire sul mercato finanziario statunitense, in particolare quello dei titoli di Stato, ampi investimenti di riserve internazionali, incidendo così su quel mercato. Lo stesso fenomeno si è verificato per i paesi esportatori di petrolio, che hanno accumulato in questi anni ingenti riserve in dollari.

In prospettiva, se si vuole evitare il ripetersi di squilibri internazionali è necessario che paesi di dimensioni sistemiche, come la Cina, si dotino di una propria politica monetaria e lascino fluttuare il tasso di cambio della loro moneta in funzione dei rapporti di competitività, evitando di accumulare riserve internazionali in modo sistematico. Ciò richiede un coordinamento al livello internazionale. Il G7 ha fatto pressioni, sin dal 2003, in particolare sulla Cina, per ridurre l’accumulo di riserve internazionali e l’adozione di un sistema di cambio più flessibile. Da metà 2005, la Cina ha annunciato lo sganciamento dello yuan dal dollaro in modo progressivo. Nei primi due anni lo yuan si è apprezzato del 21,5% nei confronti del dollaro. Ma dal luglio 2008 l’apprezzamento si è arrestato. L’accumulo di riserve internazionali è proseguito, raggiungendo circa 2000 miliardi di dollari a marzo di quest’anno. Ora che il dollaro si è lievemente deprezzato, il problema dell’ancoraggio della valuta cinese a quella statunitense si ripropone con forza.

Per concludere questa prima parte, la crisi ha messo in evidenza la necessità che le politiche economiche, in particolare quella monetaria, siano maggiormente orientate al medio periodo, piuttosto che assecondare i comportamenti pro-ciclici degli operatori. A tal fine, le banche centrali devono prendere in maggior considerazione l’andamento dei mercati finanziari, domestici e globali, per prevedere eventuali squilibri e i loro effetti sulla stabilità monetaria e finanziaria.

L’analisi che ho appena svolto sulla politica monetaria deve ovviamente essere allargata ad altre politiche, come quelle di bilancio o relativa alla regolamentazione finanziaria. Su questi temi è essenziale fare un’analisi approfondita per capire fino in fondo quali sono stati i problemi che ci hanno portato a questa crisi e come rimediarvi per evitare che si riproducano.

Un aspetto interessante, per certi versi preoccupante, è che nonostante il consenso sviluppato sull’analisi del passato, e sulle cause della crisi, non sembra esserci altrettanta disponibilità ad incorporarne gli insegnamenti nei comportamenti presenti e futuri. Per parafrasare Sant’Agostino, alle autorità di politica economica si chiede più castità e continenza, ma non subito.

È questa apparente contraddizione che fa ritenere questo livello di analisi insufficiente. È necessario – credo - porsi una serie aggiuntiva di “perché”, al fine di capire fino in fondo cosa ha indotto le autorità di politica economica a mettere in atto determinate scelte. Una risposta tradizionale a questo interrogativo è la miopia della politica, che si applica anche alla politica economica. Secondo questa tesi i tempi della politica, dettati dalle scadenze elettorali, sono troppo brevi per affrontare tematiche di lungo respiro. C’è un'ampia letteratura su questo argomento, secondo cui alcune politiche economiche, in particolare quella monetaria, dovrebbe essere sottratta alla discrezionalità politica e soggetta a regole. [10] Questo filone di analisi, sicuramente rilevante, non sembra però sufficiente a spiegare comportamenti che si ripetono nel tempo, soprattutto in sistemi democratici dove in ultima istanza tali comportamenti dovrebbero essere penalizzati.

Una ipotesi alternativa è che la presunta miopia della politica economica non sia altro che il riflesso di una miopia più generale delle società avanzate, in particolare per quel che riguarda le potenzialità di sviluppo economico. Un determinato livello di indebitamento può essere adeguato se il reddito è previsto crescere a ritmo sostenuto, ma eccessivo se tale previsione si rivela essere troppo ottimista. Non deve meravigliare se in una società in cui i cittadini hanno aspettative di crescita del proprio reddito eccessivamente ottimistiche le autorità di politica economica ritengano mettano in atto politiche che cercano di stimolare la domanda aggregata in modo sistematico.

Ciò è avvenuto varie volte in passato. A metà degli anni settanta, dopo il primo shock petrolifero, la maggior parte dei paesi industriali non si è resa conto che l’aumento dei prezzi dell’energia aveva sostanzialmente ridotto il potenziale di crescita delle loro economie. Hanno così messo in atto politiche economiche mirate a riportare l’attività economica su livelli compatibili con il potenziale di crescita precedente alla crisi. [11] Da ciò è derivata la grande inflazione della seconda metà degli anni settanta, la cui correzione ha richiesto politiche drastiche che hanno portato alla recessione globale del 1981-82.

L’esperienza dell’ultimo decennio dovrebbe far riflettere sui motivi che hanno indotto alcune società, come quella statunitense, a sovrastimare il potenziale di crescita del proprio reddito. Ci si deve chiedere, in particolare, quale siano i fattori che negli ultimi venti anni hanno portato al progressivo disallineamento tra il potenziale di crescita economico e l’obiettivo considerato sostenibile, ma che evidentemente non lo era. Non è uno shock drastico come quello degli anni settanta, ma un fenomeno più complesso, che agisce progressivamente.

Una tesi, che era stata avanzata qualche anno fa, è che la crescita sostenuta dei paesi emergenti tenda a comprimere il potenziale di quelli avanzati. Questa ipotesi è stata scartata, forse troppo rapidamente, perché non in linea con la teoria neo-classica del commercio internazionale, basata sui vantaggi comparati, secondo cui quando un paese cresce a ritmo elevato, a trarne beneficio non è solo esso stesso ma anche gli altri. Il maggior reddito disponibile consente di aumentare le importazioni dagli altri paesi e dunque di sviluppare la produzione e la crescita anche in questi.

La teoria del mutuo vantaggio si basa su alcune ipotesi specifiche, che non sempre si verificano nella realtà. Vale la pena tornare su questa tesi, e considerare in particolare le eccezioni. Vediamone sei.

La prima si verifica nel caso, illustrato qualche anno fa da Paul Samuelson, in cui i paesi emergenti registrano un elevato tasso di incremento della produttività nei settori ad alto valore aggiunto, costringendo i paesi avanzati a ri-specializzarsi nelle produzioni a minor valore aggiunto, con conseguente perdita di reddito per questi ultimi. [12]

La seconda eccezione riguarda i costi di aggiustamento che devono essere assorbiti dai paesi avanzati per far fronte alla nuova concorrenza. [13] Tali costi sono tanto più rilevanti quanto più veloce e duratura è la transizione. Nel caso specifico, se si considera il punto da cui partono i paesi emergenti, e la loro dimensione, in termini di popolazione, l’aggiustamento derivante dal loro processo di crescita attuale può durare molto a lungo ed essere di dimensioni notevoli. Consideriamo l’Asia emergente (ad esclusione del Giappone), ad esempio, che da sola rappresenta circa il 50% della popolazione mondiale e il 21% del Pil.

La terza eccezione alle condizioni specificate nella teoria internazionale riguarda l’elevato tasso di risparmio di alcuni paesi emergenti, in particolare quelli asiatici. Tale risparmio, in parte precauzionale, nasce dalla mancanza di un sistema di ammortizzatori sociali e di un sistema finanziario sviluppato. La crescita del reddito in questi paesi non si traduce in pari aumenti dei consumi, e pertanto dei prodotti importati.

La quarta eccezione riguarda le pratiche protezionistiche, esplicite o implicite, che vengono praticate in molti di questi paesi e scoraggiano le importazioni.

La quinta eccezione riguarda le politiche di cambio messe in atto da vari paesi emergenti, che favoriscono una sottovalutazione della moneta, determinando un vantaggio competitivo a favore dei propri prodotti e un risparmio netto nei confronti del resto del mondo.

Infine, la forte crescita dei paesi emergenti mette sotto pressione le risorse scarse del pianeta, aumentandone i prezzi e determinando così una perdita di ragioni di scambio per i paesi importatori. Il caso delle materie prime, la cui domanda mondiale aumenta a un tasso superiore all’offerta è noto. Ma ci sono altri esempi, meno evidenti, come quello dell’istruzione secondaria e terziaria. Anche in questo settore, l’offerta è aumentata meno della domanda globale, facendo aumentare la concorrenza e il costo per accedere alle migliori università mondiali.

L’esperienza di questi anni suggerisce che ognuna di queste eccezioni alle ipotesi di base della teoria del commercio internazionale sia plausibile. Ciò spiegherebbe perché l’ultimo decennio sia stato caratterizzato, almeno fino allo scoppio della crisi, da un ritmo di crescita sostenuto dei paesi emergenti ma decrescente per i paesi avanzati. Spiega anche l’aumento della dispersione dei redditi all’interno di questi ultimi.

Se le politiche economiche ignorano tali sviluppi e continuano a mirare ad una dinamica immutata dei redditi e dei consumi, determinano squilibri interni ed esterni all’economia che si cumulano nel tempo. Tali squilibri possono durare anche per un periodo prolungato, in funzione del sistema finanziario e della capacità di emettere titoli di debito in valuta nazionale. Ma per definizione ciò che non è sostenibile prima o poi genera instabilità, con ripercussioni sull’intero sistema economico.

L’uscita da questa crisi dipende dalla capacità, nei paesi avanzati, di allineare le aspettative e i comportamenti degli operatori al nuovo contesto globale. Ciò non significa accettarne passivamente le conseguenze, ma evitare di aggirarle attraverso politiche che spostano il problema in avanti, cercando di guadagnare tempo. Ciò significa, in altre parole, spostare l’enfasi dalle politiche macroeconomiche a quelle strutturali.

Queste problematiche vanno affrontate non solo dai singoli paesi ma anche a livello internazionale. Da questo punto di vista, in troppi si sono affrettati a considerare oramai superati i consessi dove si riuniscono i soli paesi avanzati, come il G-7, e a ritenere che solo quelli dove partecipano anche i paesi emergenti, come il G-20, abbiano la legittimità per discutere di problemi globali. Come si è visto, vi sono questioni importanti sulle quali i paesi avanzati hanno interessi divergenti rispetto a quelli emergenti. In alcuni casi, l’origine di tali divergenze nasce proprio da specifiche caratteristiche o distorsioni alle relazioni internazionali messe in atto proprio nei paesi emergenti. È dunque essenziale per i paesi avanzati trovare punti d’interesse comuni da discutere poi in consessi più ampi.

Se questa crisi è nata e si è sviluppata al centro del sistema economico avanzato, trae in realtà origine da una oggettiva difficoltà dei paesi più sviluppati ad accettare le conseguenze del processo di integrazione internazionale, che negli ultimi anni ha subito un’accelerazione. Tali paesi, anche i più importanti, sono diventati singolarmente più piccoli, maggiormente influenzati e vulnerabili rispetto al contesto esterno. Solo rafforzando la cooperazione tra di loro potranno mantenere una leadership globale.

Grazie dell’attenzione.

  1. [1] J. Taylor (2009) Getting Off Track: How Government Actions and Interventions Caused, Prolonged, and Worsened the Financial Crisis, Hoover Institution Press.

  2. [2] Ben S. Bernanke (2002) “Deflation: Making Sure "It" Doesn't Happen Here”, remarks before the National Economists Club, Washington, D.C., November 21, 2002; Alan Greenspan (2004): “Risk and uncertainty in monetary policy”, remarks at the Meetings of the American Economic Association, San Diego, California, January 3, 2004.

  3. [3] Si consideri ad esempio questo commento sull’Economist del luglio 2005: “ […] The pursuit of price stability is a means to an end (to achieve maximum sustainable growth), not an end in itself. While the ECB's prime task is price stability, it is also legally charged with supporting growth. Last year it could have cut interest rates to offset the impact of the rising euro; today it should stand ready to ease monetary policy to cushion the impact of structural reform and fiscal discipline.”

  4. [4] Si veda ad esempio O. Blanchard e F. Giavazzi (2005): “Credibility does not require dogmatism - only clarity of purpose”, disponibile su www.voxru.org.

  5. [5] S. Cecchetti, H. Genberg and S. Wadhwani (2002) “Asset Prices in a Flexible Inflation Targeting Framework,” NBER Working Paper No. 8970, June., e N. Roubini (2006), “Why Central Banks Should Burst Bubbles.” International Finance 9, no. 1.

  6. [6] K. Assenmacher-Wesche e S. Gerlach (2008): "Can monetary policy really be used to stabilise asset prices?", disponibile su voxeu.org.

  7. [7] J. C. Trichet, “Closing address at the Fourth ECB Central Banking Conference” on "The role of Money and Monetary Policy in the Twenty-first Century" Frankfurt, 10 November 2006 ( http://www.ecb.int/press/)

  8. [8] Report of the High Level Group on financial supervision in the EU, Brussels, 25 February 2009.

  9. [9] A. Greenspan, “The Fed Didn't Cause the Housing Bubble”, Wall Street Journal. 11 Marzo 2009.

  10. [10] Ho affrontato più ampiamente questo tema in L. Bini Smaghi (2006): "Democratic Representation and Economic Policy Rules in an Ageing Society", Eumoniamaster – Institutional and Political Higher Education, 28 settembre 2006.

  11. [11] A. Orphanides (2003): "The quest for prosperity without inflation", Journal of Monetary Economics, 50, 3, pp. 633-663.

  12. [12] Si veda ad esempio P. Samuelson (2004): “Where Ricardo and Mill rebut and confirm arguments of mainstream economists supporting globalization”, Journal of Economic Perspectives, 18, 3, pp. 135-146.

  13. [13] Si veda al riguardo il capitolo 5 del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, aprile 2007.

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